Nei prossimi anni la sostenibilità finanziaria del nostro sistema pensionistico dipenderà molto dal rapporto attivi-pensionati, mentre quella sociale da quanto si svilupperà la previdenza complementare: ecco alcune delle strade da intraprendere per migliorare la stabilità della previdenza italiana, stimolando al contempo il mercato del lavoro.
Spesso leggiamo previsioni allarmanti sulla sostenibilità finanziaria a causa di un possibile deterioramento del rapporto tra chi lavora e chi è in pensione. E gli allarmi delle istituzioni internazionali sono spesso basati, è fondamentale segnalarlo, su dati forniti dalle nostre istituzioni. A fine 2019 avevamo 1,46 lavoratori attivi per ogni pensionato: è stato il dato migliore degli ultimi 23 anni e in crescita costante, merito quasi esclusivo delle riforme delle pensioni dal 1992 al 2011, visto che poco si è fatto per le politiche attive del lavoro e per la formazione. Se non ci fosse stata la pandemia da COVID-19 probabilmente nel giro di tre anni avremmo raggiunto l’1,5, non un dato stellare ma sicuramente molto confortante.
In particolare, i pensionati nel 2019 sono aumentati di 30.662 rispetto ai 16.004.503 del 2018, anche se meno di quanto ci si aspettasse per l’entrata in vigore di Quota 100, interrompendo così la riduzione che durava dal 2008: segno che il numero delle cancellazioni delle pensioni in pagamento da molti anni (spesso oltre 35) è stato elevato. Gli occupati aumentano anche nel 2019 raggiungendo quota 23.376.000 (erano circa 70mila in più nel luglio dello stesso anno), con il tasso di occupazione totale al 59,2%.
Se si vuole garantire la sostenibilità del sistema pensionistico anche per le giovani generazioni, la prima azione da fare è limitare al massimo sia le anticipazioni sia le decontribuzioni.
In particolare, Quota 100 potrà essere sostituita da una flessibilità in uscita tra i 64 anni (adeguati alla aspettativa di vita) con almeno 38 anni di contribuzione di cui al massimo tre di figurativa, e i 67 anni e 3 mesi della vecchiaia. Ma attenzione, queste regole devono valere per tutti, anche per i contributivi puri molto penalizzati dalle riforme.
La seconda azione da fare è sostituire tutte le anticipazioni citate (salvo per i casi di lunga disoccupazione) con tre strumenti: 1) i fondi esubero, che sono già operativi per le banche e assicurazioni e sono a costo zero per lo Stato. 2) I “contratti di espansione”, che prevedono una forma di ricambio generazionale, con l’assunzione di un giovane ogni tot numero di prepensionati, con oneri totalmente a carico delle imprese oltre i 250 dipendenti. Per entrambe le forme i requisiti sono 5 anni di anticipo rispetto ai 42 anni e 10 mesi (1 anno in meno per le donne), quindi anzianità di 37 e 10 mesi (36 e 10 mesi), o rispetto ai 67 anni di vecchiaia. E, infine, 3) “l’isopensione”, che consente un anticipo fino a un massimo di 4 anni – 7 fino al 2023 – con costi e contributi figurativi interamente a carico delle aziende con più di 15 dipendenti.
Così facendo l’Italia riuscirà a raggiungere l’età effettiva media di pensionamento in Europa portando quella attuale da meno di 63 a poco più di 65 anni. E, soprattutto, si ridurrà di molto l’incremento del numero dei pensionati, che potrebbero rivedere quota 16 milioni nel 2025/26.
Alberto Brambilla
fonte: Il puntopensioni e lavoro.it