Per l’UPB i prepensionamenti non hanno rilanciato l’occupazione ma solo peggiorato i conti dell’Inps

Le previsioni del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Istituto, oltre che dallo stesso Inps, e dell’Ocse, sono tutte concordi nel prevedere un deficit dell’ente previdenziale italiano  di circa 20 miliardi nel 2032. Poi tutti si sono affrettati a rassicurare i pensionati che quest’importo non costituisce una novità, sono previsti da tempo e devono stare tutti tranquilli.

La colpa principale di questa previsione è da attribuire all’invecchiamento della popolazione, dalla penuria di nuove nascite ma anche da alcune politiche pensionistiche adottate negli ultimi anni motivati dalla necessità di sostenere l’occupazione. Cosa che non è avvenuta, ma che ha aggravato la spesa previdenziale per molti anni a venire, oltre il 2032 individuato dal Civ dell’Inps.

Per comprendere meglio occorre dare una lettura approfondita al Rapporto sulla politica di bilancio dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), presentato il 19 giugno 2024  alla Camera dei Deputati

L’Ufficio parlamentare di bilancio è un organismo indipendente costituito nel 2014 con il compito di svolgere analisi e verifiche sulle previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica del Governo e di valutare il rispetto delle regole di bilancio nazionali ed europee.

Nella sua relazione l’Ufficio parlamentare si è soffermato diffusamente sull’impatto che hanno avuto i pre pensionamenti sul rilancio dell’occupazione, perché in tale ottica erano stati giustificati. Secondo l’Upb, c’è stato solo un aumento della spesa pubblica.

L’aumento dell’età pensionabile imposta dalla Fornero conseguentemente riduceva le opportunità di lavoro per i giovani, pertanto nell’ultimo decennio si è posta la questione se un abbassamento degli stessi requisiti potesse liberare nuovi posti di lavoro e favorire l’occupazione. È un tema che rientra nella cosiddetta lump of labor (LOL).

Nella definizione più stretta, la LOL si manifesta quando l’assunzione di nuovi lavoratori richiede necessariamente  l’uscita di qualcuno già occupato.

Fino ai primi anni Duemila, i requisiti di uscita sono quelli della riforma Dini ( L. 335/95).

La legge L. 247/2007 (riforma Damiano) introdusse le cosiddette quote pensionistiche, costituite dalla somma di età e anzianità contributiva da raggiungere per poter andate in pensione. In più, la revisione dei coefficienti Dini passò da decennale a triennale. A causa della crisi finanziaria del 2008, fu introdotto un altro intervento attraverso l’introduzione di finestre mobili di dodici mesi per i lavoratori dipendenti e di diciotto per gli autonomi e l’aggancio dei requisiti di pensionamento alle progressioni della vita attesa con cadenza triennale.

Continuando la crisi economica fu varata la L. 214/2011 (riforma Fornero).

I requisiti ordinari di uscita attualmente in vigore sono quelli della riforma Fornero: nel 2024, uscita per vecchiaia a 67 anni senza distinzione tra donne e uomini e uscita per anzianità (o anticipata) con 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini, senza distinzioni tra lavoro dipendente e autonomo.

 Per riattivare, dopo tanti anni, un canale più flessibile per i lavoratori nel regime

contributivo, la riforma ha introdotto anche la possibilità per costoro di pensionarsi con

un requisito di età inferiore a quello di vecchiaia, pari nel 2024 a 64 anni, un’anzianità contributiva di almeno 20 anni e un importo dell’assegno pari ad almeno 3,0 volte l’assegno sociale (534,41€ nel 2024 quindi importo minimo 1603,27) , ridotto a 2,8 per le donne con un figlio e a 2,6 per le donne con due o più figli.

Con la riforma Fornero del 2012, si chiude la fase di inasprimento dei requisiti pensionistici e si pensa che non bisogna più ostacolare il fisiologico turnover generazionale sul mercato del lavoro messo sotto stress da requisiti di uscita alti e soprattutto automaticamente crescenti nel tempo.

Per ovviare sono state reintrodotte le quote con nuovi criteri.

 La prima, Quota 100, è stata avviata con il DL 4/2019 ed era rivolta a lavoratori dipendenti e autonomi che compissero almeno 62 anni di età e almeno 38 di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2021. La legge di bilancio per il 2022 l’ha rinnovata come Quota 102, per coloro che compissero almeno 64 anni di età e almeno 38 di anzianità entro il 31 dicembre 2022. La legge di bilancio per il 2023 ha poi introdotto Quota 103 per coloro che compissero almeno 62 anni di età e almeno 41 di anzianità entro il 31 dicembre 2023. Da ultimo, la legge di bilancio per il 2024 ha mantenuto gli stessi requisiti anagrafico-contributivi ma ha previsto il ricalcolo contributivo degli assegni. Il nome scelto per Quota 103 (pensione anticipata flessibile) e il correttivo attuariale introdotto con la legge di bilancio per il 2024, con il ricalcolo sulla base del D.Lgs. 180/1997, fanno pensare che potrebbe rimanere nel futuro.

Tra il 2004 e il 2014 i pensionamento sono  diminuiscono significativamente, passando da oltre 245.000 a poco più di 113.000 all’anno. Negli anni successivi i pensionamenti tornano ad aumentare toccando quasi 240.000 uscite nel 2021 e flettono solo marginalmente nel 2022 e nel 2023. La risalita è connessa con questi interventi sul sistema pensionistico, più l’Ape sociale e Opzione donna.

Tra il 2004 e il 2023 le nuove occupazione nette correlate – ossia le attivazioni meno le cessazioni – a tempo indeterminato sono diminuite in modo continuativo, segnando un saldo negativo cumulato di circa 3,8 milioni di occupati a fine periodo.

 Una dinamica diametralmente opposta ha contraddistinto le attivazioni nette a tempo determinato, in crescita continua sino a raggiungere un saldo cumulato di poco meno di 5,7 milioni.

L’Upb esamina tutta una serie di dati e di correlazione che trovate nella allegata relazione concludendo che l’effetto dei pensionamenti sulle attivazioni nette è negativo per circa 0,19. Questo implicherebbe che in media le posizioni lasciate libere andando in quiescenza non siano rimpiazzate integralmente. Dopo la correzione per il coefficiente di riporto da attivazioni a occupati, il risultato sarebbe di solo lo 0,87  di nuovi occupati (1 – 0,19/1,5) per ogni cessato che va in pensione di vecchiaia o anzianità.

Quindi le nuove occupazioni che si registrano in questo periodo sono dovute per la maggior parte per l’espansione del mercato del lavoro e non per il meccanismo dei LOL, cioè sostituzione del pensionato con un nuovo assunto.