Il 25% del Tfr obbligatorio nei fondi pensione: un altro passo verso la privatizzazione delle pensioni

Perché succederà questo ormai è noto a tutti, per rimanere solo in campo previdenziale, mancano i soldi per un fatto semplicissimo: i giovani sono sempre di meno e quindi versano sempre meno contributi, i vecchi sempre di più e quindi riscuotono anche per una trentina di anni la loro pensione.

A provare di far quadrare i conti fin da quando ci fu il primo allarme agli inizi degli anni 90 del secolo scorso ci fu Amato, poi Dini, poi la Fornero. I paletti stabiliti sono stati:

  • pensioni calcolate sui contributi effettivamente versati;
  • equiparazione dell’età pensionabile uomini – donne;
  • innalzamento dell’età pensionabile in base alla crescita della “speranza di vita”, perché la capacità lavorativa in condizioni ordinarie (e fatte le debite eccezioni delle mansioni svolte) di un 60 enne del XXI secolo è maggiore di quello di uno del XIX secolo.

Appena fissati questi “paletti”, sono stati subito scardinati con una serie di provvedimenti, almeno un paio all’anno, divenuto poi un obbligo fisso per ogni legge finanziaria di fine anno.  Partendo da giuste e legittime esigenze ed aspettative, le deroghe via via assunte,  hanno di fatto nullificato ogni sforzo. Inutile ricordare le baby pensioni, i pre – pensionamenti degli anni 80/90, l’invenzione delle quote ecc.

A ciò si accompagnava la consapevolezza, viva più che mai anche oggi, della non adeguatezza delle pensioni, intendendo per adeguatezza il poter vivere senza eccessive preoccupazioni economiche mantenendo lo stesso status economico di quando si lavorava.

Secondo uno studio della UIL Pensionati del 2023, la riduzione ammonta ad un valore che va dal 15 al 68% a danno di circa 3,5 milioni di pensionati nel periodo dal 2011 al 2022.  Una pensione di 1500 euro nel 2011 ne vale 1442 nel 2022. 760 euro all’anno di riduzione del potere d’acquisto.

Per evitare fra l’altro il deprezzamento dell’adeguatezza, si dette impulso alla previdenza complementare sulla quale non senza sofferenza e dibattito si espressero favorevolmente le principali organizzazioni sindacali.

Anche in questo caso furono fissati dei “paletti”:

  • non si dovevano aumentare i contributi previdenziali, ma utilizzare il Tfr;
  • l’adesione all’Inps obbligatoria;
  • l’adesione alla complementare esclusivamente volontaria con versamento di tutto il Tfr maturato dall’iscrizione in poi.

In questi 30 anni  dal decreto legislativo 124/1993 e poi di quello 252/2005, si è proceduto in questo modo, ma a tutt’oggi, gli aderenti alla previdenza complementare sono solo un 25% circa dei lavoratori attivi, anche perché i non aderenti per motivazioni varie preferiscono mantenersi il Tfr, nonostante che l’adesione alla complementare comporti una serie di benefici fiscali tutt’altro che secondari.

Ora per invogliare a rimanere al lavoro si pensa di dare nuovamente degli incentivi già previsti dalla finanziaria 2024 (c.d. Bonus Maroni) mentre per rimpinguare le future  pensioni si pensa di far versare obbligatoriamente il 25% del Tfr maturando, cioè la quota che si accumulerebbe dall’approvazione della legge in poi ad una forma di previdenza complementare.

secondo visto che parliamo di sistema contributivo questo 25% perché non versarlo all’Inps per aumentare il montante contributivo di ogni singolo lavoratore e dargli così una pensione automaticamente più consistente, almeno del 25%, estendendo proporzionalmente i benefici fiscali analoghi, visto che i pensionati italiani sono i più tartassati della UE.

La risposta negativa e conseguente levata di scudi contro questa proposta dipende dal fatto  che questo 25% versato all’Inps va a finire nel calderone generale della ripartizione e  viene sottratto agli investimenti oggi consentiti sui mercati finanziari  per conseguire degli incrementi pensionistici, come fanno oggi i fondi pensione.

Si può seguire allora l’esempio in atto in Germania già da qualche anno.

Il progetto presentato oltralpi prevede investimenti di almeno dieci miliardi all’anno sul mercato finanziario internazionale per i prossimi quindici anni, al fine di realizzare un fondo con cui assicurare la stabilità delle pensioni. Si tratta in sostanza di passare dal modello puramente sociale basato sui contributi ad un modello misto che lega l’importo della pensione ai contributi e ai rendimenti dei mercati finanziari.

Secondo, il governo tedesco solo così si potrà mantenere l’impegno di non abbattere le pensioni e di non alzare l’età pensionabile.

Si tratta di compiere il passo successivo ed il governo tedesco lo ha compiuto

Ai due pilastri esistenti, pensione obbligatoria e quella complementare, si aggiungerebbe così un terzo fondo perequativo. Già nel bilancio tedesco  per il 2023 sono previsti crediti per dieci miliardi per creare il capitale di base che si accumulerà per legge fino ad almeno il 2037 ed eventualmente oltre. Verso la fine degli anni 2030 sarebbe così data stabilità ad un sistema altrimenti destinato al collasso.

Deputato ad investire le risorse del fondo sarebbe un Ente esterno all’Inps tedesco, la “Generationenkapital”, che dovrà seguire criteri di sostenibilità in un’ottica di rendimento di lungo termine.

In Italia questo tabù, cioè l’affidamento delle pensioni anche ai capitali finanziari, già è stato rotto con l’introduzione della previdenza complementare, si tratta di compiere il passo successivo che  il governo tedesco lo ha compiuto. In questo senso il 25% del Tfr acquisterebbe un senso. Si aumentano le disponibilità dell’Inps per l’immediato, si ha una quota di una forte massa critica da immettere sul mercato, anziché è spezzatini delle varie forme di previdenza complementare che da anni cercano di fare qualcosa con la Cassa depositi e prestiti e soprattutto, si salva la volontarietà dell’adesione alla previdenza complementare con il versamento dell’intero Tfr.